“Luci della città - Stefano Cucchi”
testo di
Pino Carbone e Francesca De Nicolais.
con Francesca De Nicolais
regia Pino Carbone
produzione o.n.g. Teatri, ex Asilo Filangieri
Il personaggio del vagabondo è arbitrario e comodo.
Qualcuno è vagabondo per qualcun altro.
Qualcuno è sempre al margine.
Al margine di quello che è stato stabilito come centro.
Si è sempre più in basso di qualcuno.
Fuori dalla grazia di dio e dalla giustizia.
Ognuno ha il diritto di sentirsi vagabondo,
di rimanere o mettersi al margine, di stare un po' più in basso.
Il vagabondo sono anch'io, anche lui, anche tu.
E tu.
E tu.
Charlie Chaplin è un attore acrobata che interpreta un personaggio che ripetutamente fallisce: un clown.
Chaplin inventa Charlot per raccontare l'impossibilità e l'imprevedibilità della perfezione.
Inventa Charlot per raccontare la grazia del fallimento.
Profondamente, meravigliosamente umano.
Charlot l'improbabile boxeur.
Che si aggrappa alle corde per sottrarsi all'avversario.
Che si ripara dietro l'arbitro, più per far ridere il pubblico che per nascondersi.
Che si stringe forte al suo avversario per stanchezza e lo fa diventare poi un abbraccio affettuoso.
Charlot che scappa sul quadrato come se fosse una lunga strada, per aggrapparsi di nuovo alle corde quando si accorge che lo spazio è finito.
Chiude gli occhi come un bambino, per non vedere e sperare di non essere visto.
Diventa ancora più piccolo e indifeso.
Si chiude nella sua ottusa solitudine.
Aggrappato ad un'idea di poesia.
E intorno il mondo in bianco e nero… e muto.
Intorno calci e pugni perché sei un reietto, sei la feccia della società, sei un tossico di merda, sei nelle nostre mani ora, nelle mani dello Stato.
E tu, Stefano, per lo Stato non eri nessuno.
E neppure per noi, fino a che non sei diventato martire e simbolo.
Stefano che forse si aggrappa alle sbarre per sottrarsi all'avversario.
Che forse si ripara dietro il lavandino, e non per far ridere il pubblico.
Che forse si stringe forte ai suoi avversari, anche lui per stanchezza.
Stefano che scappa nel quadrato della cella come se fosse una lunga strada,
per aggrapparsi di nuovo alle sbarre quando si accorge che lo spazio è finito.
Chiude gli occhi come un bambino, per non vedere e sperare di non essere visto.
Anche lui diventa ancora più piccolo e indifeso.
Si chiude nella sua ottusa solitudine.
Aggrappato ad un'idea di giustizia.
Una idea: la sua.
La vicenda di Stefano Cucchi è emblematica di qualcosa che non va, di qualcosa che ci riguarda. Che dovrebbe riguardarci tutti, se avessimo occhi.
Se non fossimo come la fioraia cieca, da ingannare con il rumore di una portiera che sbatte.
Come succede a Charlot in “Luci della città”.
Stefano, le luci si accendono tardi, di notte, a Tor Pignattara.
Di notte. A Tor Pignattara. È ancora notte.
È notte
L'idea di messa in scena si muove tra ironia e rabbia.
Un lavoro sul clown e sull'umano. Uno studio sul clown e quindi un lavoro sull'umanità.
Nell'epoca in cui tutti reclamano spiegazioni razionali, la parola reclama il suo diritto ad essere anche parola poetica.
Anche invocazione.
Anche bestemmia.
Anche ritmo o soltanto rumore.
La parola rivendica il suo diritto alla scostumatezza.
I peggiori delitti si sono consumati in nome della buona educazione.
La sensazione è quella di assistere a uno spettacolo che non dovrebbe avere luogo.
Perché di Stefano Cucchi, a teatro, non si può parlare.
Perché è una storia che nessuno vuole sentire. Perché non c'è niente da rappresentare.
Un ragazzo di 31 anni è morto in circostanze poco chiare - o non ancora chiarite - mentre era sotto la custodia dello Stato, per usare un'espressione da libro di denuncia, o da teatro di narrazione.
Per usare un'espressione che userebbe chi riesce a restare virtuosamente lucido di fronte alle tragedie. Io questa virtù non la possiedo, quindi "perdonate la mia incoscienza incivile".
Un ragazzo di 31 anni è morto. punto.
È entrato in carcere sulle sue gambe, è uscito cadavere dal reparto di medicina protetta di un ospedale una settimana dopo. punto.
Senza poter vedere i suoi familiari. punto.
Senza potersi neppure cambiare i vestiti e la biancheria. punto.
Sul suo corpo sfigurato vistosi segni. punto.
In quel letto d'ospedale i sudori acidi di una solitaria astinenza. punto.
E a capo.
Questo spettacolo vuole essere le lacrime che non abbiamo pianto.
La rabbia che non abbiamo gridato.
La poesia che non gli è stata concessa.
http://www.napoliestteatro.com/spett
acoli/Stagione2015/Pino%20Carbone.html
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Venerdì 24 aprile 2015, ore 21.
Prezzi:
Intero 12€
Ridotto (under 25 e over 65) 10€
Per info e prenotazioni:
info.teatronest@gmail.com
tel. 3497818580 / 3382376132
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