Primum non nocere.
“Primum non nocere”: troverete queste parole scolpite nel legno di un maestoso bancone, entrando nello spazio Umuse, in Piazza del Popolo, a Ruffano. “Per prima cosa, non nuocere”, un assioma attribuito a Galeno che ricorda a chi si dedica alla cura dei mali che la prima necessità a cui far fronte, davanti all’infermo, è quella di vagliare la possibilità che la cura possa comprometterne la salute più di quanto non faccia il male stesso. Non a caso, questo locale è stato a lungo una farmacia. Forse, però, questa solenne scritta in latino non sarà la prima cosa che vi capiterà sotto gli occhi, perché Umuse appare, ad un primo sguardo, come una sorta di contemporanea wunderkammer, il regno di un collezionista colto ed eclettico, decisamente lontano dal moderno classificatore di oggetti ma il cui processo di accumulazione non potremmo definire del tutto asistematico. È vero che, se un criterio c’è, non è facilmente rintracciabile.
Roberto Prøntera non mette insieme i suoi reperti secondo un ordine cronologico o tipologico, non li classifica per ordine di provenienza o per il materiale che li costituisce, né si può asserire che li raccolga e li metta in sequenza unicamente in base al suo senso estetico, o che la loro successione tenda il sottilissimo filo di un’eterea narrazione, né che si tratti della nebulosa espressione di un afflato magico o, magari, dell’effetto di un vortice di psicosi. Sovrapporre il concetto di apofenia, che gli è così caro ed è così presente nel suo lavoro di artista visivo, alla rete invisibile tesa tra i frammenti della sua strana collezione, potrebbe venirci in aiuto. L’apofenia è la tendenza a riconoscere schemi o connessioni in una serie di dati casuali. È il meccanismo, umanissimo eppure considerato ai limiti del patologico, che ci porta a vedere, per capirci, elefanti, caffettiere e donne nude negli sbuffi delle nuvole più irregolari e tra le venature del marmo degli scalini. Questa spiegazione, tuttavia, risulta estremamente riduttiva. Un ratto mummificato accanto ad un paio di antiquati occhiali da motociclista, una pietra dalla forma atipica e suggestiva, un vecchio scrittoio, un vaso antico, sono collegati tra loro da una visione, e la loro statica e polverosa danza è un mezzo per renderla fruibile. Niente a che vedere con l’ombrello e la macchina da cucire sul tavolo di dissezione che Lautréamont si augurava di trovarsi davanti: l’idea di collezionismo e quella di casualità non potrebbero che cozzare, giusto? Nella scelta quasi maniacale di questi oggetti e nel parossistico tentativo di conferire loro un ordine, seppur difficilmente intelligibile, si intravede, piuttosto, una disperata ricerca di senso. Dove sarebbe saggio semplificare, Prøntera lascia deflagrare la complessità e si diverte ad inseguire il significato come un cacciatore di farfalle perso nella foresta pluviale. Umuse non è una wunderkammer, una semplice accozzaglia di oggetti rari, curiosi o pregevoli né, tantomeno, una specie di narcisistico vittoriale, ma un labirinto di immagini dense di significato. Il fatto che offra le sue pareti alle opere degli otto artisti che saranno coinvolti nella collettiva e nella serie di bipersonali che si susseguiranno tra i mesi di giugno ed agosto di quest’anno, fa pensare ad un intento decisamente meno banale della volontà di mettere in mostra il lavoro di questi validi e giovani avventurieri del codice visuale. A tessere trame, innalzare muri per nascondere i sentieri più ovvi e confondere il visitatore in un ramificato dedalo per lasciarlo, poi, uscire più libero e consapevole della complessità del mondo, si corre il rischio di dare vita un labirinto di opere d’arte in cui lasciar balenare, di tanto in tanto, i riflessi scintillanti di quello, inarrivabilmente ricco ed ambizioso, che Warburg stava tracciando nel suo atlante incompiuto. In una breve discussione con Roberto è emerso che alcuni degli artisti che desiderava promuovere si sono mostrati atterriti all’idea di dare in pasto le loro opere ad uno spazio così saturo. Ora, non c’è dubbio sul fatto che alcuni lavori abbiano un sacrosanto bisogno di stagliarsi contro le neutre pareti del sopravvalutato white cube, per dire quello che hanno da dire, ma quale sfida è più affascinante, per un artista, un tecnico consacrato alla veicolazione di significato, di quella di farsi spazio in mezzo alla
terribile densità di significato di un posto come questo? Lavorare squisitamente site specific sarebbe troppo facile e, forse, risulterebbe noioso. Potrebbe condizionare la libertà espressiva dell’artista o portarlo ad appiattire idealmente la peculiarità dello spazio. Qui si tratta di inserirsi nella sequenza apparentemente assurda architettata dal padrone di casa, cogliendone il codice nascosto e calando a tradimento, nel flusso semiotico esistente, i propri segni, i meno fragili a disposizione. Oppure di farci a cazzotti. Con la convinzione di un pugile dato perdente alla prima ripresa, ma con la rabbia nei nervi e la fame che gli strizza lo stomaco. Torniamo ora al bancone con la scritta “Primum non nocere”. Perché sceglierlo come titolo della mostra? Perché definisce l’identità dello spazio, lo ricollega alla memoria storica della comunità, che lo associa alla sua vecchia funzione di farmacia, perché l’iniziativa di Umuse non vuole sconvolgere la realtà che le sta intorno, ma adagiarsi sulla sua storia, già così ricca e stratificata, sulla sua ragnatela di rapporti e necessità. “Primum non nocere” significa agire nel rispetto di un corpo, di un intero, del complesso delle sue funzioni e dei suoi bisogni. Se consideriamo l’arte come corpo, in una visione più ampia che attraversa gli stili, il tempo e i luoghi, non possiamo che agire con umiltà, iniettando piccole dosi di nuovi composti e sperimentandone gli effetti a breve e lungo termine. Anche Umuse è un corpo con le sue caratteristiche, e gli artisti interverranno interpretandone i segni, studiandone la fisiologia, dosando il loro apporto. Probabilmente
Marcello Nitti si sente a casa, in uno spazio come questo: in un luogo in cui lo stratificarsi del tempo e delle immagini diventa terreno fertile per la complessità, la sua pittura potrebbe perfino confondersi. Per il sapore “museale”, per le straordinarie capacità di mimetismo stilistico e l’estrema finezza tecnica che ne contraddistinguono il lavoro. La ragione per cui un suo dipinto non può diventare una semplice tessera del mosaico – Umuse è che ogni sua opera è un mondo a sé, un sistema di segni che contiene, nel giustapporsi delle pennellate e nel sovrapporsi delle velature sull’incrocio di trama e ordito, le ragioni del suo equilibrio ed il germe della sua catastrofe, due poli dei quali l’artista è perfettamente consapevole e tra i quali, giocando con gli stili e le icone, coreografa abilmente la danza della sua raffinata pittura. È stato Nitti a reclutare gli altri sette artisti che si alterneranno in coppia in “Primum non nocere”, e lo ha fatto senza preoccuparsi dell’omogeneità dei loro percorsi ma, probabilmente, mirando alla costituzione di un alfabeto di otto lettere che consente di imbastire centinaia di letture di questo luogo, esaltandone la natura labirintica ed aprendo porte su una miriade di labirinti ulteriori.
Davide Russo, come fanno le pareti di un dedalo, occulta i sentieri che conducono alla fruizione più ovvia dell’immagine: la padronanza del suo gesto, sempre più potente e misurato, ed il controllo della densità delle sue paste cromatiche gli permettono di intervenire sulla fotografia nascondendo una parte dei dati che renderebbero immediata la riconoscibilità del soggetto e del suo stato d’animo, per far emergere sulla superficie delle sue opere qualcosa di indefinito, inquietante e terribilmente vitale, com’è la pittura stessa, quando è liberata dal compito di rappresentare.
Giovanni Matteo
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