Se è vero che l'Ape Piaggio - che ancora attraversa il Sud del nostro stivale, isole comprese - è un talismano della felicità al cinema, perché, come simbolo de LaCapaGira, ha portato incredibile fortuna ad Alessandro Piva, non è escluso che non riservi lo stesso trattamento a L'uomo che comprò la luna, che è già diventato un piccolo fenomeno nella madre patria del regista, dove è già campione d'incassi. Inizia infatti con un'ape turchese in uno scenario da western o da Rapacità di Von Stroheim il secondo film di Paolo Zucca, che non vuole essere esplicitamente un invito ad abbracciare la cultura sarda, ma che della regione italica a sud della Corsica prova a svelare l'anima più profonda, più ancestrale, quella indissolubilmente legata ai ritmi della natura e delle maree.
E’ una commedia, certo, la nuova prova dell'autore de L'arbitro, ma è anche molto altro: una favola lirica, un racconto surreale, un film di fantascienza, una storia che trasuda una grazia e uno stupore quasi zavattiniani, e perfino una satira, e qui si intuisce la mano di sceneggiatrice di Geppi Cucciari. In quanto sardo, Zucca conosce bene la sua terra e i suoi abitanti, e si permette di giocare con i luoghi comuni che li riguardano (le pecore come estrema ratio per i pastori soli, la proverbiale chiusura mentale, l'incredibile permalosità). E gioca anche con altri generi il regista nato a Cagliari, forte di uno stile evocativo e fluido e di un'ottima direzione d'attori. Da cinèphile qual è, si diletta con l'epica del viaggio dell'eroe, che fa ritorno nel luogo d’origine e scopre di non averlo mai dimenticato, e poi strizza l'occhio a una molteplicità di apprendistati: da quello di Batman Begins a quello di Karate Kid, salvo che qui l'individuo da formare, anzi da trasformare in un sardo doc, è un agente che si finge milanese e dice di chiamarsi Kevin Pinelli, mentre di nome fa Gavino Zoccheddu. A lui Jacopo Cullin, che ha un talento comico irresistibile, dà una molteplicità di sfumature, ed è grazie alla sua versatilità che L'uomo che comprò la luna può mutare continuamene pelle, quasi fosse influenzato, come la Terra, dal pianeta che ci gira intorno.
Buffo come uno dei personaggi di Crozza o della Gialappa nelle prime sequenze, Cullin lascia progressivamente ogni esagerazione per diventare prima un duro con la coppola, il fucile e un'invidiabile padronanza della lingua nonché un asso del calcio balilla, e poi un uomo "che mantiene le promesse e capisce la differenza fra le persone e le cose", come gli insegna ad essere il suo aggressivo Virgilio. Quest'ultimo personaggio, interpretato da Benito Urgu, è la coscienza del film, e il maestro di sardità, che ci insegna che nella sua bella e aspra isola le donne non sono donne ma regine, regine come la Teresa di Angela Molina a cui il marito ferito ha fatto un dono grandissimo e meraviglioso.
Anche sul finale, che non sveleremo, Il film compie un'ulteriore metamorfosi, probabilmente la più bella, diventando poesia pura e anarchia nel senso migliore del termine, quindi imprevedibilità piuttosto che ingovernabilità, racconto neanche a farlo apposta stralunato in cui il presente, con i servizi segreti italiani e i militari USA pronti ad attaccare la Sardegna, si intreccia al passato remoto, ai fasti di un'isola che fu la patria di menti illuminate come Antonio Gramsci e che perciò è custode della memoria. Fra le sue montagne e sulle sue spiagge di roccia calcarea si sono mossi grandi personaggi che hanno lottato in nome della libertà. A loro Zucca trova perfino il modo di accostare il fumetto, quello di Hergé e di René Goscinny, citato negli agenti segreti Pino (Stefano Fresi) e Dino (Francesco Pannofino) che ricordano i gemelli Dupont e Dupond e un po' Obelix. Cattivelli e determinati, trovano anche loro il giusto spazio accanto ai pastori, alla Luna, a morti che riappaiono, a pescatori e... a un asino, secondo emblema di un piccolo grande film a cui auguriamo fortuna anche oltremare.
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