Slow city
Per camminare sui marciapiedi d’asfalto che avrei desiderato
di Dalia Trisuilla
Se, non si barcolla per l’ubriachezza ai margini della notte, non capita quasi mai di camminare a centro strada, con la certezza di dover far attenzione alle auto che sfrecciano.
Non capita, se non in quelle strane storie che sanno tanto di Kerouak o di scenari immersi tra strade ancora polverose. Perché se si immagina l’asfalto e il turbine che genera, un’improvvisa accelerazione imperversa nelle nostre esistenze eccitate dal traffico.
Oggi ho percepito, una calma surreale lungo gli stradoni di alberi. Dopo le isteriche file davanti ai distributori per approvvigionarsi di carburante, salito ulteriormente di prezzo, ecco oggi, ho ascoltato meno clacson strombazzare. Mi è sembrato di sentire un pettirosso cantare di giorno. Perché ormai l’inquietante canto dei pettirossi lo potete ascoltare solo nel silenzio delle luci notturne.
La densità del traffico si è abbassata.
Allora forse non è così immediatamente necessario rivestirsi d’auto e scendere ad occupare il proprio spazio pubblico, armandosi di suv per acciuffare i bambini da scuola?
Magari forse dopo essersi assestati, si scenderà per strada a riempire le piazze. Questo è un sogno retrogrado, perché quelle affollate rimarranno le sole piazze virtuali. Queste sono le comodità che ci rendono pigri e riottosi all’altro.
Allora non mi resta che portare il mio sogno oltre questo giorno, tra i blocchi irreversibili al traffico e la benzina che continua a mancare. Ecco si iniziano a far strada nel cervello, che esce fuori dagli schemi, i tarli che hanno intorpidito i passi.
Un “Tardoevo” di tecnologia più umana, sarebbe lì ad ammaestraci.
La gente forse uscirebbe per strada ad affollare i marciapiedi e ad occupare l’asfalto. Inizierebbe a guardarsi negli occhi perché s’era dimenticata com’era fatto uno sconosciuto di carne ed ossa, e dopo il pauroso smarrimento e l’idea folle di mangiarselo, ad un’ulteriore fase d’incazzatura, seguirebbe il dover necessariamente cercare soluzioni.
Le grandi metropoli si sgretolerebbero dalle periferie, diventate isole di produzione.
Già gusto, i suoi profumi autentici: il latte dell’azienda agricola, non mangeremmo più pomodori, se non tra giugno e settembre o sulle pendole o per conserve, la pasta con il grano che non ha fatto più chilometri di noi in tutta la nostra vita. Mentre le macchine diverrebbero funzionali alla nostra crescita e non a quella del portafoglio di petrolieri e banchieri.
E magari ritroveremmo pure un rinnovato rispetto per la terra, perché proprio mentre ci fermiamo, andiamo avanti.
Sono solo un bacchettona o forse saremmo più felici?
Perché la voragine nel sistema, inesorabile implode, al ritmo incalzante del petrolio.
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