Pietà di Kim Ki-duk, la recensione
Pietà è un film coreano del 2012, diretto e sceneggiato da Kim Ki-duk e vincitore del Leone d’oro alla 69° mostra del cinema di Venezia.
Lee Gan-do, interpretato da Lee Jung-jin, è un ragazzo senza affetti e senza scrupoli che fa l’esattore per un usuraio: i poveri artigiani che non posso restituire i soldi, prestati ad un interesse spropositato, vengono prontamente mutilati da Lee, in modo da poter riscuotere il risarcimento dell’assicurazione che lui stesso li ha costretti a stipulare. Improvvisamente si presenta a lui una donna che dice di essere sua madre, rea di averlo abbandonato subito dopo la nascita.
Lee non ci crede e sottopone la donna a delle prove, che comprendono anche lo stupro, fino a che si convincerà, ritornando a uno stadio quasi infantile e instaurando con la madre un rapporto di dipendenza affettiva quasi “edipico”. Il ragazzo non è più solo e ritorna a provare delle emozioni, che per la prima volta lo faranno preoccupare di eventuali ripercussioni causate dal suo lavoro e dalla sua violenza. La vendetta è dietro l’angolo e Lee comincia a temere per l’incolumità di sua madre e a un certo punto la crede in pericolo, ma la conclusione riserva un colpo di scena che rappresenta la consacrazione di quest’ultimo lavoro del regista sud-coreano dalle inquadrature intense, che dona a questo film il pathos di una tragedia greca e il simbolismo di una storia biblica.
La pietà, cui fa riferimento il titolo, è un concetto derivante dalla pietas degli antichi romani: per questi ultimi era sostanzialmente la devozione per le divinità, la patria e la famiglia, poi dall’avvento del cristianesimo questa parola si è trasformata e s’identifica con il concetto di misericordia, amore per il prossimo e compassione. Sentimenti che il protagonista ritroverà grazie al riavvicinamento con la madre, ma la redenzione ovviamente è sacrificio, così come è ben chiaro nella foto d’ispirazione “michelangiolesca” della locandina.
L’espiazione, secondo Ki-duk, non si limita al giovane Lee, ma è indirizzata al mondo capitalista in cui viviamo, nel quale l’unica cosa che conta è il denaro, che sostituisce anche l’affetto per un figlio o l’amore in una coppia. E alla domanda “cos’è il denaro?” la protagonista femminile, un’indimenticabile Cho Min-su, afferma “è l’inizio e la fine di tutte le cose”, quindi tutto si compie in nome dei soldi. Forse l’alienazione, di cui siamo vittime in questo millennio non è causata dalle macchine, che sono protagoniste di molte bellissime sequenze del film, ma è il bisogno di un guadagno disperato che ci allontana dai nostri valori, da ciò che è importante. Anche da quel lavoro che dovrebbe essere nobilitante, che dovrebbe rappresentare lo scopo finale delle nostre azioni, ma invece diventa mezzo, quando c’è, per la conquista di qualche moneta in più. Lee diventa così il simbolo di una società consumata dal capitalismo smodato, che è diventata insensibile, egoista e violenta, che è stata abbandonata, ma attraverso la pietà può ritrovare una speranza.
Angela Maria Centrone