Django Unchained di Quentin Tarantino, la recensione
Ritorno in pompa magna per Quentin Tarantino che, omaggiando il film omonimo del 1966 diretto da Sergio Corbucci, quest’anno presenta “Django Unchained”, in assoluto la pellicola più lunga che il “regista dj” abbia presentato finora, ben 165 minuti che, garantisco, scorrono veloci.
In primis rendo grazie a Tarantino per aver consacrato al grande pubblico un attore favoloso qual è Christoph Waltz, che dopo la straordinaria interpretazione del colonello Hans Landa in “Bastardi senza gloria”, valsagli giustamente un Oscar, ci regala il fantastico personaggio del dott. King Schultz, un ex dentista di origine tedesca reinventatosi cacciatore di taglie negli Stati Uniti di metà ‘800 e caratterizzato da un linguaggio forbito e da rara nobiltà d’animo.
Ebbene, il dott. Schultz libera Django (Jamie Foxx), uno schiavo nero dal temperamento coraggioso, perché lo aiuti ad identificare dei ricercati, promettendogli una percentuale della taglia.
La squadra risulta vincente, così Schultz propone a Django di lavorare con lui per l’intero inverno e gli promette che allo sciogliersi delle nevi lo aiuterà a liberare sua moglie Broomhilda, la quale è stata venduta come schiava a Calvin Candie (Leonardo di Caprio), proprietario della piantagione di cotone più grande del Mississipi, Candyland.
Django Unchained strizza l’occhio agli spaghetti western per ambientazione, inquadrature , scelte tecniche e font dei credits, ma non lo definirei tale, anche per rassicurare chi gli spaghetti western non li hai mai digeriti. Anzi, forse Django Unchained potrebbe essere uno stimolo per accostarsi al genere. Quella di Tarantino è una pellicola sui generis con un cast d’eccezione, magistrale l’interpretazione dell’amico di sempre Samuel L. Jackson, e che affronta un tema scottante come quello della schiavitù, su cui non si risparmia speculazioni filosofiche e a questo proposito ho trovato geniale il monologo di Candie/Di Caprio.
Insomma, lo chef del cinema Tarantino combinando gli ingredienti più improbabili: ironia, rap, pallottole, anacronismi, citazioni, splatter, temi sociali, romanticismo e, ciliegina sulla torta, un indimenticabile cameo di Franco Nero (protagonista di Django nel 1966), ancora una volta fa centro e lo spettatore non può che uscire dalla sala con soddisfazione e magari fischiettando il main theme di “Lo chiamavano Trinità”.
Angela Maria Centrone