Le contaminazioni gitane di Moni Ovadia
Quando il pregiudizio diventa il comodo vestito della discriminazione
Quando ieri sera, prima che si abbassassero le luci della ribalta, mi sono accomodata sulle poltrone di velluto bordeaux del Teatro di Verdi, mi sono chiesta quante persone avessero consumato in maniera diversa quelle sedute. Ad ogni poltrona nella sua carriera, se non in rari casi, è corrisposto sempre un differente peso ed equilibrio.
A margine della Giornata della memoria, la città di Martina Franca si è regalata uno spettacolo - ponte di comprensione e riflessione sulla nostra superficialità, che si stratificata e si trasforma in pregiudizio prima, e marginalizzazione poi; anche nella nostra contemporaneità di presunta condivisione.
Le luci si sono abbassate ed un'orchestra gitana ha animato il palco con il ritmo cadenzato da tempi dispari. Due clarinetti, a sinistra, una fisarmonica, un contrabasso, alla destra del pubblico e al centro, questo strano strumento contaminato tra pianoforte e batteria: il cimbalo.
Abbiamo poi scoperto che quei tre virtuosi dal centro a destra, erano Rom di provenienza romena.
Si sono presentati senza parole, semplicemente con la musica, con quanto di più universale avevano da dare per far aprire le porte della comprensione verso l'altro.
Hanno introdotto così il fulcro della scena: un leggio animato dalla voce proveniente da sembianze quasi garibaldine. Era lì Moni Ovadia con la sua presenza ad ammaestrare le parole per raccontare della sua “teatranza”. Senza recitare, attraverso la vita nella sua accezione più pura e semplice, misurata da passione e sofferenza, Moni Ovadia ha dato leggerezza alle nostra tacita accettazione dell'assurdo e del nostro inconsapevole modus discriminandi.
Ha lasciato emergere attraverso gli eventi, le persecuzioni patite di popoli senza terra, il loro legittimo diritto di sperare ed aspirare almeno solo di sopravvivere. Ed il sopravvivere, la sofferenza ed il dolore, diventano la catarsi che si trasforma in espressione.
Il popolo che chiamiamo con pregiudizievole disprezzo “zingari”, ha lasciato virtuosismi non replicabili proprio nella cultura immateriale, proprio in tanta musica che è stata fatta propria da altri popoli ospitanti.
Discriminazione che tutte le minoranze quali, sinti ebrei o anche omosessuali hanno sofferto, e tutt'ora soffrono, perché è più facile puntare i dito contro i più deboli, identificandoli come capri espiatori del nostro mal di vivere piuttosto abbattere muri per comprendere le loro ragioni.
Perché lo spettacolo “Senza Confini Ebrei e Zingari” è il calarsi dentro le parole per misurare quanto si possano trasformare senza dare peso, prima in gesti e poi in oggetti. Oggetti di materia, freddi come camere a gas o caldi come forni crematori.
Oggetti dettati dal pregiudizio. Perché non si conosce, perché si marginalizzano culture che è più facile discriminare. Solo perché il peso di una cultura si misura con la sua monumentalità e la monumentalità si esprime con l'architettura. Perché i percorsi traversi della nostra condivisione hanno necessità di etichettare e catalogare ogni pezzo di materia corrispondendola in limiti fittizi.
E delle cultura senza terra, rimangono tracce indelebili nelle altre, con le sue contaminazioni musicali. In quanto la musica e la sua immaterialità fortunatamente non è circoscrivibile in nessun oggetto; se non nei ricordi e nell'anima.
Perché seppure ci sediamo su poltrone comode, inevitabilmente qualche traccia dell'altro rimane su di noi.
Dalia Trisuilla
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