La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, la recensione
“In ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico” sostiene Virgil Oldman, battitore d’asta di successo e protagonista dell’ultimo film di Giuseppe Tornatore che, lasciate le atmosfere della sua amata terra, ma rinnovando il sodalizio con Ennio Morricone, ritorna per un attimo ai tempi di “Una pura formalità” e ci presenta un noir dalle ambientazioni mitteleuropee. “La migliore offerta” non è uno di quei film ad uso singolo, ma si potrebbe definire durevole, proprio perché ogni scena costruisce l’altra, ogni elemento è strumentale a quello successivo, ogni visione è utile a identificare quel dettaglio in più che la volta precedente era sfuggito. A cominciare dalle opere d’arte che appaiono nella pellicola e che Oldman, interpretato da uno Geoffrey Rush calatissimo nei panni di critico d’arte cinico, maniale e metodico, colleziona, grazie alla complicità dell’amico Billy (Donald Sutherland), in una stanza nascosta della sua casa: centinaia di ritratti femminili di valore inestimabile, le uniche donne che Oldman si sia concesso di amare, di guardare negli occhi e di toccare senza guanti.
Poi nella sua vita irrompe la presenza, o almeno la voce, di Claire, una giovane scrittrice agorafobica che si rivolge a lui per vendere il patrimonio artistico di famiglia, in seguito alla morte dei genitori. Le vicende si sviluppano lentamente, tenendo alta la suspence tanto cara al maestro Hitchcock, man mano che Virgil ritrova in casa di Claire i piccoli ingranaggi di un automa del XVIII secolo, probabilmente un Vaucanson originale, e che viene usato da Tornatore come espediente narrativo della storia. Gradatamente i pezzi dell’automa vengono ricomposti dal giovane orologiaio Robert (Jim Sturgess), nonché confidente del protagonista, e al contempo avviene la trasformazione di Virgil. Solo quando il lavoro sarà completo arriverà anche l’amaro epilogo, che invero è lì dietro l’angolo: lo spettatore lo può annusare, forse immaginare, ma che tuttavia, come nella più classica delle tradizioni dei finali di genere, sorprende elegantemente e innesta l’ossessione che ci sia un’ulteriore verità, celata efficacemente nei piccoli gesti dei protagonisti di una storia in cui la simulazione è così estrema da far sembrare falso ciò che è vero e viceversa.
Angela Maria Centrone